Spoleto, 21 giugno 2021
Nel 2010, in occasione dei sessant’anni dalla prima comparsa dell’opera, la Fondazione CISAM ha pubblicato la ristampa anastatica della Monarchia di Dante curata da Gustavo Vinay. La prima edizione era uscita nel 1950 e prima d’allora Vinay non aveva mai scritto su Dante. Ma fin dall’esordio della sua Introduzione si comprende che c’era stato un lungo lavoro preliminare sulla critica apparsa fino a quell’anno. Convinto di una dantesca intuizione puntuale, Vinay la intende applicata alle sorti dell’Impero universale, quasi che la Monarchia costituisca nella poetica dantesca «la soluzione di tutti i problemi e di tutti i tormenti». Dodici anni più tardi, nella Interpretazione della Monarchia di Dante (Firenze 1962) Vinay non ha cambiato idea e vede nel trattato tutti i disagi e le inquietezze di un’epoca ma anche dello scrittore che nel binomio potere spirituale-potere temporale crede sempre giusto chiedersi se i due poteri siano l’uno dall’altro dipendenti o derivanti, oppure se entrambi ricevano da Dio la loro autorità, come Dante è convinto che sia. Una concezione cristiana della vita che, applicata alle situazioni politiche del tempo suo, l’autore organizza secondo un progressivo cammino verso la ricerca della felicità. Scritta dopo il Convivio e coerente con quella filosofia politica, la Monarchia avrebbe dovuto esprimere la compiutezza di una visione armonica del mondo guidato dal Sacro Romano Impero: si tratta della identica passione che Dante stesso mette nella scrittura delle Epistole, non a caso presenti in traduzione nell’Appendice dell’edizione di Vinay e funzionali a chiarire gli orientamenti danteschi, che nelle Epistole appaiono talvolta indecisi e nella Monarchia, invece, preferiscono ipotizzare una visione ottimistica e metastorica. Il desiderio di identificarsi in una unità spirituale dei poteri in campo nel XIII secolo fa sperare a Dante che l’episodio della discesa in Italia di Arrigo VII di Lussemburgo costituisca l’intersezione felice di questa speranza. Ma all’indomani del fallimento di questa speranza nascono in lui gli accenti che affiancano ragioni cristiane e ragioni politiche. Dopo lo scontro, non previsto ma temuto, fra l’Impero e il Papato, fra il Papato e le monarchie nazionali, Dante si sceglie il ruolo dell’investigatore: c’è davvero necessità di credere che una monarchia universale sia essenziale all’ordine delle cose umane? L’indagine del Dante investigatore qui si confonde e si intreccia con l’indagine di Vinay su Dante. Il continuo utilizzare il Dante del prima per capire il Dante del dopo sta, nel Dante di Vinay, in questo incessante passare dall’una all’altra opera, mosso, il poeta, da un solo scopo che Vinay estende a tutta quella visione della storia: «Nel suo viaggio non ha appreso, non ha visto nulla che già non sapesse, non ha insegnato nulla che già gli altri non sapessero, ma si è liberato di sé esprimendosi ed ha trovato la pace esprimendosi in quell’assoluto che si è creato e nella creazione è divenuto certezza. La pace di quando quarantenne sognava il tempo della vecchiaia in cui tutto è risolto e ricordando si attende». Il connotato autobiografico diventa forte, per Dante e per il suo editore del ’50: nel 1312 (anno della Monarchia) Dante ha 47 anni, nel 1950 Vinay ne ha 38: i quarant’anni stanno a cavaliere dei due, del poeta e del suo interprete. Dalla Monarchia parte il viaggio di Vinay dentro Dante, poi, progressivamente, il Dante della Monarchia quasi sparisce a fronte dell’orizzonte della Commedia. Quasi sparire per rimanere sempre, proprio come Vinay.
Quale migliore occasione, in questo 2021, del VII centenario della morte del grande poeta per scoprire (o riscoprire) una delle principali opere latine di Dante e, al tempo stesso, per scoprire (o riscoprire) in Vinay uno dei suoi più originali e tormentati interpreti?
Gustavo Vinay (1912-1993)
Biografia
Nato a Forengo, frazione dell’allora comune di Chiabrano (Torino), nella Val Germanasca, da famiglia valdese, Gustavo Vinay è stato uno dei più originali storici e critici della letteratura mediolatina. Formatosi alla scuola torinese di Giorgio Falco, vinse nel 1954 il concorso a cattedra e venne chiamato dalla facoltà di lettere dell’Università di Roma, dove dal 1955 al 1982 insegnò lingua e letteratura latina medievale. Tra il 1956 e il 1976 insegnò anche presso la Scuola speciale per archivisti e bibliotecari, la Scuola di perfezionamento in filologia classica e la Scuola di perfezionamento in storia del diritto italiano medievale e moderno. Nel 1960 venne nominato direttore dell’Istituto di studi mediolatini della facoltà di lettere, incarico che ricoprì fino al 1982. Nel 1959 fondò con Ettore Paratore e Ciro Giannelli la Rivista di cultura classica e medioevale, ma ne lasciò la direzione già nel 1960, quando gli fu affidata da Giuseppe Ermini quella di Studi medievali; sotto la sua direzione (fino al 1970) iniziò la terza serie della rivista, una vera e propria rifondazione per varietà di temi e di proposte metodologiche. Nel 1961 divenne membro del consiglio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo di Spoleto in cui restò fino alle dimissioni, nel 1977. Dal 1971 fino alla morte Vinay fece parte del Consiglio direttivo allargato dell’Istituto storico italiano per il medio evo; come presidente dell’Associazione dei medioevalisti italiani realizzò i convegni del 1975 e del 1976. Fuori ruolo nel 1982, nel 1989 fu nominato dalla facoltà di lettere professore emerito. Nel 1988 si trasferì prima a Bologna, poi a Montichiari (Brescia), dove morì il 21 settembre 1993; è sepolto nel cimitero di Chiabrano.